"LO STATUTO EPISTEMOLOGICO DELLA DSC E IL SUO INSEGNAMENTO"

Lateranum 1 (2011) pp. 232-258


La questione dello statuto epistemologico della DSC ci spinge a riflettere su un modo di procedere teologico riguardo ai fatti sociali che sappia, secondo l'oggetto in questione, elaborare un sapere che possa, nella sua specificità e peculiarità, esprimere giudizi etici, valenze pastorali, compe­tenze tecniche1.
È chiaro che ciò richiederebbe, ulteriormente, interrogarsi sul senso stesso dell'insegnamento della DSC, che non può essere ricondotto a semplice comunicazione, sia pur criticamente riflessa, di contenuti, ma dovrebbe proporsi, a nostro avviso, l'obiet­tivo di educare a interpretare veritativamente il sociale dal punto di vista operativo, vale a dire relativamente alle forme dell'agire da esso richieste, entro la complessa trama delle situazioni che ad esso si riferiscono.
L'accostamento alla DSC, in questo senso, potrebbe allora proce­dere in due diverse direzioni, che corrispondono ad altrettanti com­piti; una, quella fondamentale, che dovrebbe muoversi nel senso dell'indagine del rapporto sintetico tra fede e società declinato sotto il profilo morale e pastorale; l'altra, quella riferita ai contenuti della DSC, che potrebbe perlomeno spostarsi da un interesse prevalentemente nozionistico, atto cioè ad attingere dalle fonti studiate il da farsi nelle diverse situazioni, ad uno paradigmatico, attento cioè a recepire non tanto soluzioni di pronto o addirittura universale utilizzo, ma modelli di giudizio, di interpretazione e di azione, come tali sempre e comunque da riscrivere, o meglio da far rivivere entro una realtà mai sufficientemente comprensibile a priori, ma sempre e solo nelle singolarità delle situazioni incontrate.
Nello sforzo di chiarificazione epistemologica analizzeremo il passaggio della DSC dalla filosofia (1.) alla teologia (2.), focalizzando poi la sua figura teorica cioè il principium quod e il principium quo (3.), e la forma conseguente di giudizio pratico (4.). A questo punto del nostro percorso possiamo far emergere alcune sfide e opportunità dell’insegnamento della DSC (5.).

1. La DSC come filosofia
 
1.1. La figura che presenta la DSC nei pronunciamenti che vanno da Leone XIII a Pio XII, e in parte anche Giovanni XXIII, è quella di una “dottrina”, cioè di principi e di norme deducibili dalla stessa natura umana (quindi corrispondenti al diritto naturale) e relativi alla vita in società. Si tratta cioè di un “corpus” organico e coerente che permette, se viene correttamente applicato, di comprendere e soprattutto regolare la società. In quanto tali principi e norme sono deducibili dal diritto naturale, essi riguardano tutti e non solo i cristiani: perciò la DSC appartiene all’etica naturale e non alla teologia. Inoltre essi si possono ritenere come la strada “certa e sicura” per risolvere i problemi sociali2.
            Se l’intento di questa figura di DSC era quello di individuare nella stessa natura dell’uomo (e quindi nella legge morale naturale) gli strumenti per risolvere le questioni sociali, tale prospettiva non rendeva conto di come la vita sociale non possa essere pensata come semplice campo di applicazione delle nonne morali inscritte nella natura; la società infatti si presenta con un suo spessore storico irriducibile ai criteri astratti e generali. Questa condizione “astorica”' della società si esporrà, tra l’altro, alle critiche da parte delle teologie politiche che le rimprovereranno il carattere “ideologico”, cioè funzionale al mantenimento di un determinato assetto di società.
            Inoltre ricondurre la DSC al campo dell’etica naturale ha come conseguenza l’irrilevanza della Rivelazione e della fede in ordine al giudizio sui fatti di società3. E’ vero che si parla di competenza della Chiesa nel campo sociale in quanto la verità, che in esso si esige, si fonda sulla verità ultima, accessibile compiutamente solo nella Rivelazione; per questo solo essa può indicare le strade “sicure”. E tuttavia l’orizzonte della Rivelazione (e quindi della fede) non apporta nessun criterio di giudizio storico determinato, dal momento che anch’essa è interpretata con schemi fondamentalmente “dottrinalistici”4.
E’ assente una considerazione della storia intesa come complesso delle forme sociali del vivere, caratteristiche di una determinata società perchè connesse ai modi concreti dello scambio sociale in quanto nel loro intreccio configurano la vita civile come sistema sociale. E’ invece il diritto naturale che determina l’ordine sociale esemplare5.
Il merito di questa figura dottrinalistica, che corrisponde al primo periodo della DSC, è di aver richiamato il riferimento necessario alla nozione di diritto oggettivo per definire l’ordine sociale giusto e gli stessi diritti soggettivi (i diritti umani moderni). Tuttavia la figura della società giusta è rappresentata quale fosse dedotta dalla ragione, quasi fosse “naturale”, senza relazione con le forme storiche dei rapporti sociali6.  
  La comprensione statica dell’ordine sociale da parte della DSC fino a Pio XII spiega la convinzione secondo cui la verità “immutata e immutabile” dell’ordine sociale sarebbe accessibile da parte della coscienza individuale a prescindere da ogni debito nei confronti del costume e delle sue mutevoli determinazioni storiche.

1.2. Dal punto di vista metodologico la figura di giudizio pratico che corrisponde a questa fase della DSC è quello nel quale i giudizi etici e le norme sociali sono enunciati in modo tendenzialmente « assolu­to», cioè senza riferimento adeguato ad un'interpretazione sintetica della realtà sociale e storica. Si tratta di un tipo di formulazione che si caratterizza per l'assenza di correlazione tra il giudizio etico sociale e le situazioni obiettive: il giudizio è formulato a prescindere dal confronto con l'ef­fettualità storica.
Questi elementi sono tipici delta conce­zione classica della DSC sorta nel clima di conflittualità del secolo XIX, che vede la Chiesa di fronte a una du­plice tensione. A livello politico nei confronti dello Stato laico, sorto dalla «rivoluzione liberale», e a livello economico-sociale nei confronti della questione sociale, la cui soluzione appare egemonizzata dalle forze di ispirazione marxista. In questo quadro la dottrina sociale si costruisce con una evidente tendenza apologetica, in polemica con le teorie libe­rali e socialiste, sostanzialmente critiche nei confronti del cristianesi­mo: fino alla seconda guerra mondiale l'attenzione alla confutazione degli «errori moderni» è determinante.
In questa opera apologetica si distinguono i gesuiti, artefici del nuo­vo programma di società da contrapporre alla «civiltà moderna». Essi introducono nella riflessione sociale una distinzione caratteristica, che influenzerà la dottrina fino a Pio XII: la «tesi» e l'« ipotesi».71 Il ma­gistero pontificio ha come oggetto proprio l’affermazione della «te­si», cioè dei principi che devono idealmente guidare una società cri­stiana; nella pratica però i cattolici possono procedere a un compro­messo, se di fatto vengono a trovarsi in una società non rispettosa dei principi cattolici, come appunto accade nella società liberale. Con l'« ipotesi» si apre la strada alla tolleranza e alla collaborazione di fatto con il regime liberale, considerato erroneo in linea di principio.
La prospettiva metodologica della dot­trina sociale che si va cosi elaborando è questa: il giudizio sul presente viene formulato partendo da un modello ideale di società che si presume cor­rispondente alla volontà di Dio e che si ritiene di poter conoscere at­traverso il ricorso alla legge naturale. Conseguentemente la dottrina sociale appare come un compiuto sistema dottrinale, dedotto dai prin­cipi naturali, razionalmente conoscibili e in grado di condurre a una sintesi organica dei principi normativi della società ideale e del suo fun­zionamento. Ne risulta un progetto di società, un modello definito come «naturale», e dunque universalmente valido e immutabile, cui si pos­sono ricondurre tutte le situazioni storiche, un modello, una «tesi», da riprodurre nella realtà concreta, nel modo più fedele possibile. La competenza nell'elaborazione della «tesi» è riservata al magistero, che deve anche guidare i laici nello sforzo di applicazione dei principi so­ciali.

2. Dalla filosofia alla teologia
 La vicenda storica che ha condotto la dottrina sociale della Chiesa a cer­care la propria identità trasferendo il proprio campo disciplinare dalla filosofia (o Etica naturale) alla Teologia, impegna a ricercare il momento e a precisare le ragioni, che hanno fatto scattare lo scambio e mutato, presumíbilmente in modo irreversí­bile, la direzione.
La cri­tica alla formulazione dottrinalistica della DSC viene da lontano, dal movimento che attraversa interiormente la morale cristiana, in cerca, già prima del concilio, di una più precisa identità nella rivendicazione della propria specificità. E si dirige verso la progressiva riscoperta che il principio della morale cristiana è la rivelazione soprannaturale, non la legge naturale: ovviamente senza esclusioni, né artificiose alternative7. Preme sensibilmente sullo sfondo il nuovo contesto socio-culturale, che non è più quello omogeneo di «cristianità», «informato» dall'idea di morale naturale, insieme accolta ed accreditata. La transizione è connotata dal riferimento al fenomeno epocale della «secolarizzazione». transizione dall'unica cultura, precisamente
la cultura cristiana, a una cultura postcristiana, frantuma­
ta e pluralista. Il monolitismo culturale era istituito sul diritto naturale: tutta la cultura era d’accordo che la società potesse/dovesse reggersi e normarsi, a prescindere dalla fede e quindi da ogni confessione religiosa, sul cosí detto «diritto naturale», che, in quanto naturale, è iscritto nella natura di ogni uomo e comune a tutti, e quindi universale8.
Nell'estrema incertezza sui fondamenti della società, è certo che il monolitismo cul­turale si è frantumato, ed è subentrata una situazione deci­samente pluralistica, nella quale è obiettivamente impossibile riproporre la dottrina sociale fondata sulla filosofia del sen­so comune o filosofia cristiana. Di qui l'esigenza del rinno­vamento, anche per la dottrina sociale della Chiesa prece­dentemente fondata sul «diritto/legge naturale»9.
Da tempo ormai, cioè da quando la transizione culturale aveva incominciato a far sentire i suoi effetti, la dottrina sociale della Chiesa era sot­to tiro: non tanto dall'«esterno», cioè da parte dei «nemici» della Chiesa; ma dall'interno, cioè da parte degli stessi cri­stiani impegnati: ne era stata denunciata la sterilità nel sen­so che non incideva sul cambiamento sociale; ne era stata contestata l'astrattezza, nel senso che veniva dedotta a prio­ri, anziché elaborata nell'osservazione diretta dei fenomeni sociali; ne era stata decretata la fine; ne era stata profilata l'alternativa in una critica della società condotta alla luce dei «segni dei tempi»; ecc.
Ritengo che la critica piú grave, mossa contro la DSC, fosse quella di occul­tare il messaggio cristiano. Effettivamente se la dottrina so­ciale della Chiesa si riconduce ad una filosofia, ad un'etica naturale, non può costituzionalmente annunciare il messag­gio cristiano nella sua identità e specificità: se e nella misura in cui il messaggio cristiano deve riconoscersi nel messaggio della «grazia», intesa come salvezza soprannaturale. In que­sta prospettiva viene mossa alla DSC la critica - per la verità piuttosto pa­radossale - di tener fuori il cristianesimo dalla società, cioè di assecondare l'illuminismo - che è il movimento egemone dell'età moderna - nella sua pressione ad emarginare la reli­gione dalla società, confinandola nel privato10.
A muovere la critica, sono le punte piú progressiste della teologia contemporanea: la «teologia politica» mitteleuropea e la «teologia della libe­razione» latinoamericana. Benché in polemica tra loro - la polemica è particolarmente dura da parte della teologia del­la liberazione contro la teologia politica, accusata di essere una teologia «borghese» - confluiscono nel richiedere il coin­volgimento diretto del cristianesimo, della fede, della Chie­sa, della religione nell'azione politica.
La Sollicitudo rei socialis, trasferendo alla teologia morale la competenza della dottrina sociale della Chiesa, obiettivamente, almeno in un certo senso, si direbbe che ha accolto la critica: diventata teo­logia, la dottrina sociale della Chiesa, non può piú occultare il messaggio cristiano, ma deve proporlo nella sua precisa e specifica identità.
Ancor prima della SRS, occorre rifarsi alla Evangelii Nuntiandi (1975), l'esor­tazione apostolica di Paolo VI seguita al Sinodo dei vescovi (1974)11. Paolo VI, rifiutando le due posizioni estremiste: quella bor­ghese che separa, negando ogni rapporto tra il messaggio evangelico e la giustizia sociale; e quella terzomondista, che riduce il messaggio evange­lico alla giustizia sociale, afferma la pertinenza, nel senso forte dell'ap­partenenza, della giustizia sociale al messaggio evangelico. In altri ter­mini, riconosce la questione sociale situata entro l'ambito della rivelazione. Il riconoscimento non fu il risultato di un'opera di mediazione politica; ma si legittima, e anzi s'impone, fondamentalmente sull'approfondímento della nozione di ri­velazione canonizzata nella costituzione del concilio Vaticano II Dei Verbum. Invece è da rilevare che per questo riconoscimento la giustizia sociale è costituita oggetto della teologia, perché la rivelazione, che è il principio proprio della fede, è il principio proprio della teologia.
Su questa acquisizione, ormai pacifica, si colloca l'enciclica di Giovanni Pao­lo II. La Sollecitudo rei socialis, nell'ulti­ma parte prima della conclusione, escludendo che la dottrina sociale appartenga all'ideologia, precisa che appartiene alla teologia et quidem theologiae morale, e quindi «l'insegnamento e la dif­fusione della dottrina sociale fanno parte della missione evangelizzatri­ce della Chiesa» (n. 41). Non quindi all'etíca naturale come aveva dichiarato l'ínterpretazione pur autore­vole della Mater et Magistra, ma alla teologia morale12. Per esprimere questa appartenenza intrinseca della DSC alla fede e alla responsabilità che da essa deriva ci si riferisce alla “teologia”.
 La teologia, in ogni suo ramo, procede alla luce della fede e della rivelazione, strumenti impropri alla filosofia (probabilmente an­che alla filosofia cristiana). È’ questa la novità profonda che si è determi­nata nella dottrina sociale della Chiesa, al di là delle novità particolari, che, pur significative in se stesse, risultano fuorvianti quando vengono sovradeterminate come fossero gli elementi decisivi.
            L’obiettivo allora deila DSC risulta essere quello della prospettiva criti­ca e al tempo stesso propositiva della fede, perché l'uomo non sol­tanto scopra le norme del vivere sociale ma il fondamento, la moti­vazione, la verità profonda e irrinunciabile di quel vivere, che solo può rendere persuasive alla coscienza contemporanea quelle stesse norme che intendono promuoverlo (CDSC n.78, Caritas in veritate (CV) n.15).

  1. La figura teorica della DSC

 

3.1. L’indicazione acquisita sol­lecita le determinazioni ulteriori necessarie alla definizione della figura teorica della dottrina sociale della Chiesa, determinazioni che ovviamente concernono, secondo il linguaggio della scolastica, sia il principium quo, l'oggetto for­male; sia il principium quod, l'oggetto màteriale, la materia da trattare. Il compito ésula evidentemente da un'enciclíca papale, anche se la Solli­citudo rei socialis lo tiene in prospettiva, quando precisa che la dottrina sociale della Chiesa pertiene alla teologia et quidem alla teologia morale. Più in generale esula dal compito del magistero per investire quello dei teologi.
 Sotto questo profilo si chiarisce l'equivoco che tendeva a ridurre la dottrina sociale della Chiesa all'insegnamento del magiste­ro. In quanto disciplina teologica, la dottrina sociale deve assumere l'in­segnamento del magistero - è una sua esigenza intrinseca -, ma non può esaurirsi in esso: l'orizzonte teologico è più vasto, perché è quello intero della rivelazione comprensivo dell'insegnamento del magistero (Dei Ver­bum, n. 10).
L’intenzione di valorizzare  in massimo grado l'originalità dell'apporto della fede cristiana, e quindi la teologicità della DSC, emerge dallo spazio costante e crescente, che viene dato all'argomentazione  che parte dalla rivelazione cristia­na, l'agire gratuito e preveniente di Dio a favore dell'umanità13; da qui, attraverso le mediazioni che la tradizione ecclesiale ha elaborato al fine di ispirare l'agire so­ciale credente, il percorso approda alle indicazioni rela­tive alle più rilevanti domande attuali (CV n.12).
Evidenzia costantemente la natura teologica della DSC, dal pontificato di Giovanni Paolo II in poi, la considerazione di essa in quanto momento dell'evangelizzazione; basti pensare alle affer­mazioni contenute in Sollicitudo rei socialis n. 41 e in Centesirnus an­nus n. 54, già sufficientemente esplicite al riguardo, e in particolare il Compendio di DSC (nn.7.10.60-71). La Caritas in veritate definisce la DSC “caritas in veritate in re sociali: annuncio della verità dell’amore di Cristo nella società”(n.5; n.15). La iscrizione complessiva della DSC entro la cifra sintetica dell’evangelizzazione fa emergere anche il tratto di azione ecclesiale, quindi pastorale prima che morale14.
    Data la sua intima natura teologica, la dottrina sociale si pone, nella forma singolare che le compete, come normativa non soltanto in merito "ad atteggiamenti generali ma anche a precisi e determinati comportamenti e atti concreti”(VS n.99). Non si limita ad offrire risposte "cristiane" a questioni non sufficientemente elaborate sotto il profilo propriamente teologico: riformula le questioni sociali, problematizzando un presupposto centrale della cultura dominante quale è l'estraneità della coscienza individuale nei confronti dell'oggettività sociale15. In tal  modo la DSC rivendica “lo statuto di cittadinanza della religione cristiana”(CV n.56).
il ruolo della DSC come teologia sarà quello di cogliere la verità nelle forme pratiche dell'esperienza civile (CV n.9) e non solamente la soluzione di casi concreti:  fà emergere quindi îI fondamento16. Lo stesso richia­mo ad una elaborazione del fondamento dell’esperienza sociale appare non come momento preliminare o iniziale, e quindi comunque preparatorio alla produzione della norma di comportamento e del fare progettuale; si tratta piuttosto di riconoscere le questioni, identificandone il nucleo veritativo e mostrando come esso richiami l'impegno delle persone (singoli e gruppi, dunque anche istituzioni, che sono in radice modi di agire collettivo). Ciò non richiude affatto la riflessione teologica nella contemplazione di un fondamento già dato e solo da esibire, ma introduce e abilita all'azione come momento impreteribile della verità-fondamento­  della vita umana17. Certo su questa linea la riflessione teologica dovrà riconoscere e rispettare limiti precisi: quelli del conflitto sociale, quelli della propria docta ignorantia (il me­todo e la teoria proposti non permettono di parlare di tutto: il che non è, per altro verso, compito della teologia), quelli della legittima autonomia del sapere e dell'agire che organizzano la vita sociale secondo le forme deÌÌa cultura e del sapere contemporanei. La DSC e la teologia che la pensa non esauriscono la conoscenza dell'esperienza sociale, né producono da sé le strutture e i rapporti storici nei quali tale esperienza  vive18.

3.2. Quanto all'obiectum quod, l'oggetto materiale è il «sociale”. Ma che cosa è il sociale?
È certamente inadeguato pensare il «sociale» come un settore della «natura» (o del «naturale») con la presunzione di poterlo dominare indipendentemente dal suo realiz­zarsi storico; o più immediatamente, se si dimentica che la questione sociale, che ha provocato l'esigenza della dottrina sociale, è questione caratterizzata intrinsecamente dalla evoluzione storica e in ultima ana­lisi questione caratteristica della «modernità».
Cercare una risposta al livello più profondo della natura dell'uomo, sia pure nella sua formalità sociale, non è sufficiente anche se è necessario. In ultima analisi significa eludere il problema e logica­mente precludersene la soluzione, negando la pertinenza necessaria del­le «scienze dell'uomo» alla determinazione della dottrina sociale della Chiesa. È’ il «distacco» dalla questione reale, generalmente imputato al­la passata dottrina sociale della Chiesa col duplice addebito, da un lato di risultare sterile e dall'altro di servire all'ideologia19. Contro ogni fraintendimento, non si tratta di ridurre la dottrina sociale della Chiesa a scienza dell'uomo, perché la dottrina sociale della Chiesa si pone co­me disciplina teologica; si tratta di prendere chiara coscienza che la dot­trina sociale della Chiesa, precisamente nella sua formalità di disciplina teologica, non si elabora senza una riflessione critica sulla società nella sua figura storica e complementariamente senza l'impiego delle scienze analitiche della società.
In ambito teologico, le scienze dell'uomo hanno costituito un problema. Né poteva essere diversamente, tenendo conto, da un lato della loro ím­prescindibilità, in quanto strumenti insostituibilí per la conoscenza e per l'azione, e dall'altro della difficoltà d'integrazione, in quanto la metodologia utilizzata dagli autori per comprendere i problemi sociali dipende sia dal loro orientamento teorico che dall'oggetto pre­ciso che intendono spiegare.
La possibilità della teologia sociale di avvantaggiarsi degli apporti analitici delle scienze umane suppone preliminarmente una critica epistemologica di quelle scienze; e suppone più radicalmente una riflessione teorica sugli aspetti e i concetti fondamentali del fenomeno sociale (cultura, storia, potere, diritto, ecc.). Il debito della teologia nei confronti delle scienze sociali non può essere pensato quasi si riducesse a quello di prendere atto dei risultati; il compito è invece quello di chiarire la qualità dei problemi obiettivi.
« Per incarna­re meglio in contesti sociali, economici e politici diversi e continuamente cangianti l'unica verità sull'uomo, la dottrina sociale della chiesa entra in dialogo con le varie discipline che si occupano dell'uomo, ne integra in sé gli apporti e le aiuta ad aprirsi verso un orizzonte più ampio al servizio della singola per­sona, conosciuta ed amata nella pienezza della sua vocazione»(CA n.59, anche citato da CV n.31). La DSC ricerca fino a qual punto le istituzioni corrispondano all’uomo nella sua globalità (CV n.9), mentre le singole scienze studiano i fenomeni umani selezionando un campo legittimo, ma ristretto, di analisi20.
Le scienze sociali offrono quindi un indubbio contributo di conoscenza alla Chiesa per la elaborazione del suo insegnamento sociale, che non può non tener conto della concreta situazione storico-culturale21.
A sua volta, però, le scienze sociali possono trarre utili suggestioni e indicazioni dallo stesso insegnamento sociale della Chiesa e dalla teologia non solo per individuare i temi da analizzare, ma anche per cogliere in esse una sorta di coscienza critica di cui il ricercatore ha indubbiamente bisogno. Sotto quest’ultimo profilo, i riferimenti possono essere molteplici: per es. l'essenzialità di una visione antropologica cristiana che ponga al centro dell'attenzione sempre Ia persona umana22.
L’antropologia cristiana va però intesa come un riferimento dinamico, che, assumendo la storicità propria della riflessione teologica, implichi una riformulazione adeguata di se stessa, aperta agli elementi validi che le scienze sociali vanno apportando al processo23.
Infatti gli aspetti della vita sociale che la ricerca empirica manifesta come contingenti e legati a una situazione storica determinata propongono alla teologia pratica il compito di ridefinire quelle « profondità dell'essere umano » (OA n.40) che mai possono essere dette nella forma del puro concetto, ma sempre comportano di necessità il riferimento alle rappresentazioni offerte dall'esperienza sociale e il loro continuo superamento.
Pretendere di porre in un semplice confronto antropologia e scienze umane, implicitamente e riduttivamente presuppone un'idea di antropo­logia configurata come somma di principi astratti o fondamentalistica­mente dedotta dalla Scrittura24. Il confronto non può assumere la forma di com­parazione tra i rispettivi asserti; deve invece assumere la forma del dìbattito reso possibile dal comune referente reale al fine di chiarire la qualità dei problemi obiettivi. Per potersi con­frontare con le scienze sociali, la DSC esige che la teologia si misuri con i fenomeni della società complessa e con le questioni obiet­tive che essa solleva, come quella della necessità del nesso stretto che le­ga il soggetto individuale alla qualità dei rapporti sociali 25.
La  riflessione della teologia sociale, nella sua specificità teologica, non integra solo contenuti sta­tistici, ma elabora con un metodo proprio (teologico) le idee e i metodi delle diverse discipline. comporta di necessità la ripresa delle figure di senso proposte alla coscienza del credente dalla cultura plasmata dalle scienze umane. comporta la rinnovata significazione di quelle figure in modo da rendere ragione del nesso obiettivo e indubi­tabile che lega la coscienza dell'uomo contemporaneo alle tradizioni culturali, tradizioni che rimandano la co­scienza individuale a un'istanza reli­giosa e trascendente, che soltanto me­diante la scelta individuale può essere determinata. Tale scelta assume sem­pre e comunque la forma dell'atto di fede.
 Il credente ha bisogno di essere “critico”, il ministero ecclesiastico deve aiutarlo in questo compito: la teologia ha quindi un servizio urgente da rendere alla buona qualità del ministero ecclesiastico.
Ecco dunque la necessità di mettere a punto un'adeguata criteriologia in modo che il metodo, per essere autenticamente teologico, possa svolgersi lungo l'intero suo percorso sotto il segno esplicito della riflessione di fede insieme agli apporti delle scienze sociali (Libertatis nuntius n.10).

  1. La mediazione come forma del giudizio pratico

 

4.1. Allo stato attuale, fa difetto la messa a tema della comprensione cri­stiana della realtà storico-sociale e quindi dei modi della conoscenza e del giudizio sui fatti storico-sociali, dove il «cristiano» dice l'oggetto for­male e quindi il teologico; e la realtà storico-sociale dice l'oggetto mate­riale. In ultima analisi, sembra mancare ancora una comprensione cri­stiana attendibile o, se si vuole, un giudizio storico cristiano plausibile sulla società contemporanea26.
Dal punto di vista metodologico si tratta di sviluppare il modello della « mediazione » o discernimento sociale  nel quale il giudizio morale non procede immediatamente dai prin­cipi dottrinali, che rimangono riferimento normativo originario, ma si costituisce anche in rapporto all'esperienza storica, intesa come luo­go di emergenza di ideali «contingenti». Questa reciproca composizione degli elementi costitutivi del giu­dizio può essere descritta in termini di « mediazione »  e mira all'individuazione di ideali storici concretamente perseguibili in una precisa situazione.
Il giudizio non si può produrre correttamente per immediata deduzione dai principi dottrinali astratti, ma esige un confronto tra la concretezza storica e la visione cristiana dell’uomo e della società27.
Il problema del rapporto tra la conoscenza della situazione e i principi dottrinali cristiani è in questi termini: il rapporto non può aver la forma di una semplice comparazione dei fatti sociali, nella loro materialità, con i paradigmi ideali astratti della vita sociale, come la libertà, la giustizia, la solidarietà, e neppure può assumere la forma di compromesso tra il massimalismo dell’ideale e il condizionamento imposto dai fatti storici (tesi e antitesi).
La forma del giudizio etico sociale è descrivibile come mediazione tra fatti e ideali, in vista dell’individuazione di ideali storici concreti. I fatti e l’esperienza storica non sono considerati nella loro materialità, come condizionamento bruto, ma come luogo imprescindibile dell’emergenza dell’ideale, luogo che perciò esige una comprensione valutativa, un discernimento dei “segni dei tempi” in vista del giudizio sul bene possibile nella concreta situazione. 
In altri termini non si può presumere una transizione immediata dalle esigenze morali, formalmente universali, al giudizio operativo concreto28. La soluzione esige di individuare un’area di consenso su evidenze etiche emergenti dalla coscienza collettiva e che perciò possono costituire la base di un progetto storico concreto verso il quale far convergere tutte le forze morali29.
Si tratta di un esercizio dell’intelligenza della fede che non si limita alla pura proclamazione della differenza radicale tra le forme sociali e la speranza cristiana, ma si colloca all’interno delle forme della convivenza umana, cogliendo il rapporto intrinseco tra il processo storico e il mistero cristiano, emergente dai segni dei tempi.
Il giudizio storico pratico si struttura in tre momenti logici strettamente connessi ed intercomunicanti: l’analisi, la valutazione e la progettazione.
La prospettiva di tutti e tre i momenti è teologica, se elaborata mediante una metodologia adeguata30. Nessuno dei tre momenti può essere totalmente isolato, la riflessione teologica non è ristretta ad uno specifico momento: “Esiste una circolarità dialettica nella quale i tre momenti si influenzano non in modo unidirezionale e rigido, ma, potremmo dire, a rete”31. Tutti i momenti sono parte di una definizione espansa di teologia: non vanno giustapposti ma  legati e integrati (OA n.4).

5.  Insegnare la Dottrina Sociale della Chiesa

L’insegnamento della DSC intende fornire le basi di un giudizio etico-sociale adeguato sia a chi intende assumere responsabilità precise in ambito sociale e po­litico sia ai non «addetti ai lavori», vale a dire a coloro che, pur non intendendo raggiungere una competenza specifica in quest'ambito, sono chiamati comunque ad esprimersi e ad agire in un contesto sociale in perenne mutamento, e caratterizzato da sempre maggiore complessità.
 L’insegnamento della DSC viene incontro all’esigenza di formazione da parte dei credenti, che domandano di potersi appropriare dei fondamenti e degli strumenti critici e di me­diazione elaborati dalla riflessione sul sociale nell'orizzonte della fede cristiana (Sacramentum caritatis n.91). Tale formazione è richiesta in particolare dal clima complessivo di mobilità, incer­tezza e frammentazione socio-culturale oggi dominante. 
Il documento della Congregazione per l’educazione cattolica, La DSC nella formazione sacerdotale. Orientamenti per lo studio e l’insegnamento 1989, afferma che  “non basta trattarne in alcune lezioni facoltative nei corsi di filosofia e teologia, ma che è indispensabile programmare dei corsi obbligatori e a sé stanti per questa disciplina…forse può essere utile collocare i corsi durante tutto l’arco della formazione degli alunni. Questa soluzione assicurebbe la necessaria continuità e gradualità dell’apprendimento”(n.73)32.
Cogliamo altre indicazioni importanti della Congregazione per l’educazione cattolica. In primo luogo viene considerata la preparazione dei professori:
-  “per insegnare la dottrina sociale non basta la pura conoscenza dei relativi documenti del magistero. È necessario che i professori posseggano un’ampia e profonda formazione teologica, siano competenti nella morale sociale e conoscano almeno gli elementi fondamentali delle scienze sociali moderne. Inoltre occorre promuovere la loro stretta collaborazione con i professori di morale, di dogmatica e di pastorale”(n.67);
-“è particolarmente necessaria la formazione permanente dei professori che garantisca il loro continuo aggiornamento (n.69);
- “perché i professori possano insegnare la dottrina sociale non come una teoria astratta, ma come una disciplina orientata all’azione concreta, sarà loro utilissima l’esperienza pastorale diretta…in maniera tale da favorire la concretezza, la validità e l’incisività dell’insegnamento”(n.70);  “molto consigliati sono le visite e i dialoghi degli studenti, accompagnati dai professori, con il mondo del lavoro-imprenditori operai sindacati - con le organizzazioni sociali e con i settori emarginati”(n.76);
Il documento focalizza la formazione dei laici. “Fa parte della formazione alla pastorale sociale istruire gli alunni sul compito e sul metodo da seguire per far prendere ai laici una coscienza sempre più viva della loro missione e della loro responsabilità nel campo sociale ….il compito del sacerdote è di formarli sia spiritualmente che dottrinalmente, di accompagnarli nell’azione sociale, di partecipare alle loro fatiche e alle loro sofferenze, di riconoscere l’importante funzione che hanno nelle loroorganizzazioni”(n.77). Particolare attenzione alla formazione dei laici viene data da Benedetto XVI in Deus caritas est n.29.
Alla DSC fanno tuttora ampio riferimento sia i corsi e gli insegnamenti accademici relativi all'etica sociale cristiana, sia strumenti destinati ad un pubblico più vasto quali ad es. le Scuole di Formazione all’impegno socio-politico diffuse in diversi luoghi della Peniso­la e diversamente articolate per livello e grado di impegno33. Anche la recente ripresa delle Settimane sociali in ambito italiano non può essere pienamente compresa se non in stretto riferimento ad un rin­novato interesse per la DSC e le sue più immediate implicazioni34.
La DSC si mostra una risorsa formativa  in grado di fornire anche nell'attuale società “principi di ríflessione, criteri di giudizio e direttive d'azione”, seconde la nota e ormai acquisita formulazione tripartita35 , che evoca il suo caratteristico profilo teorico pratico.
Sorge così l'esigenza di una ripresa autentica dell'attività di ricerca relativa alla DSC e, più in genere, alla teologia pratica: attività necessitante anzitutto di ambiti e strumenti adeguati36.
L’obiettivo dell’insegnamento della DSC non è tanto e non solo una sorta di completezza «materiale», sempre più difficilmente raggiungibile, ma un'impo­stazione del problema del raccordo fede-società alla luce della DSC che sappia mostrarsi fondato e plausibile alla coscienza contempora­nea (Deus caritas est n.28) e sia effettivamente illuminante per il cammino delle coscienze,e delle comunità ecclesiali, poste di fronte a temi e a problemi sociali sempre nuovi e da cogliere nella loro singolarità, come tali sempre meno ricondu­cibili allo svolgimento curricolare dei contenuti di un manuale.
Considerando la DSC come un continuo processo di interpretazione e reinterpretazione dellì’esperienza sociale alla luce dell’Evangelo, diventa necessario in primo luogo affrontare le difficoltà nel formare al discernimento sociale (5.1.) e, in secondo luogo, approfondire le relazioni tra DSC e la teologia pratica,, e i loro apporti specifici (5.2.).

5.1. Difficoltà nell’insegnamento del discernimento sociale
      Nell’insegnamento della teologia pratica si dà notevole spazio alla lettura dei fatti e dei mutamenti. Nondimeno tale lettura spesso si presenta o troppo empirica e schematica nella determinazione delle caratteristiche e dei compiti da svolgere ovvero legata ad un convincimento che la vita sociale, solo perché è opera dell’uomo - come è evidentemente vero - risponda immediatamente alla volontà buona o cattiva delle persone.
Da qui sorge l’appello ai grandi valori etici affinché si operino quei cambiamenti urgenti e necessari. Non ci si avvede a sufficienza invece che i rapporti sociali sono “fatti umani” in qualche modo irriducibili alle intenzioni delle singole persone, sicché per valutarli adeguatamente e per individuare i compiti che si impongono alla responsabilità dei cristiani e di tutti occorre riconoscere e precisare insieme l’aspetto obiettivo del rapporto sociale e della società nel suo complesso, e insieme cogliere il significato problematico che il sociale oggi possiede per la coscienza umana e cristiana37. Occorre poi una istruzione fenomenologica, la quale consenta di scorgere i modi determinati secondo i quali l’esperienza contemporanea della società rimanda per sua natura alle questioni fondamentali intorno al senso del destino umano e alla verità dell’uomo: a queste condizioni è possibile la mediazione culturale della fede cristiana nella società38.
     Una seconda difficoltà è quella inerente al rapporto tra DSC e teologia morale. Se è vero che la radice e il campo teologico della DSC permettono ad essa di acquisire la sua pertinenza in ordine al rapporto con la società, sviluppando il suo significato più proprio e una consapevole e critica responsabilità civile, rimane da precisare come vada determinato il rapporto fra DSC e teologia morale. I rischi che qui si presentano sono infatti sia quello di ridurre la teologia morale sociale alla DSC - e questo esito sembra non essere assente nel documento della Congregazione per l’educazione cattolica sulla DSC del 1989 - sia quello di considerare la DSC semplicemente come una delle parti della disciplina teologica morale: in tal caso essa non avrebbe più quel carattere autorevole in ordine al giudizio pratico tipico del magistero. In realtà il rapporto con la teologia da parte della DSC rimanda al più generale rapporto tra magistero e teologia, tenendo presente che è in gioco una pratica sociale, quindi profondamente multiforme e complessa.
            Infine proprio la questione del rapporto con la teologia obbliga a riconoscere come la fede escatologica sia portatrice di un comandamento che non è immediatamente raccordabile con le norme e le esigenze della vita sociale e dunque non mostra immediatamente “cosa si dovrebbe fare”.
    In tal senso appaiono piuttosto discutibili le tendenze ad utilizzare immediatamente la S. Scrittura come insieme di elementi per interpretare le vicende attuali: il rischio della eccessiva allegorizzazione pregiudica l’individuazione dello spazio etico-sociale. D’altro canto, nonostante la peculiare attenzione alle odierne vicende civili (il significato dei fenomeni del 1989 nella CA), pare ancora, in parte, presente l’intenzione di comparare l’assetto sociale come tale con le istanze evangeliche e dottrinali, e nello stesso tempo l’uso delle categorie teologiche non pare sempre pertinente e proficuo in ordine al discernimento dei compiti del cristiano, e dell’uomo in genere, all’interno dei rapporti sociali.
il giudizio storico pratico non può prodursi nella forma dell'esclusivo confronto delle forme istituzionali e culturali con i testi bíblici, o in generale con la tradizione apostolica come trasmessa dalle generazioni che ci hanno preceduto. Esso esige certo la conoscenza attenta del mutamento civile (aggiornamento); ma esige insieme la valutazione di quel mutamento nell'ottica della fede. Il discernimento sociale si focalizza sulle istituzioni culturali, su quel complesso di modelli di comportamento, di schemi di rapporto sociale, di rappresentazioni collettive, di ideali condivisi, in cui è sempre presente - almeno in forma incoativa - una  rappresentazione dell'umano: una rappresentazione magari frammentaria, ambigua, contraddittoria. Proprio in rapporto a tale prefigurazione di senso che, seppure in diversa misura, sempre le istituzioni culturali prospettano, la loro assunzione da parte della coscienza cristiana esige un correlativo impegno interpretativo e critico: un'opera di discernimento sociale39.
Imparare il discernimento sociale significa comprendere le esperienze sociali delle persone nella ricchezza di tutte le loro interrelazioni: vedere i problemi strutturali più profondi, esaminare i legami causali, identificare i fattori chiave, tracciare le tendenze a lungo termine, muovendosi in un orizzonte più largo, che permetta un’azione più efficace40.
L’insegnamento del discernimento ha pure il compito di correlare il giudizio relativo a singoli ambiti (economia, politica, cultura, famiglia, ecc.) o addirittura a singoli fenomeni della vita sociale (la disoccupazione, la corsa agli armamenti, la diffusione del divorzio, eccetera): ad un'interpretazione più sintetica della complessità sociale (Sacramentm caritatis n.89). Tale interpretazione più sintetica ha certamente da essere rispettosa nei confronti della complessità stessa, ma insieme non può abdicare al compito di interpretarne il senso complessivo. Oltre i fatti e le figure di una particolare situazione sta una struttura che provvede significato ai singoli e disparati  elementi.

5..2. DSC e reologia pratica: quali relazioni?
5.2.1. Nell’insegnamento della DSC nei vari istituti di studi ecclesiastici non ci pare ancora raggiunta un pacifica posizione in quest’ambito. Risultano troppo spesso confusi i profili distintivi tra insegnamenti curriculari (e quindi obbligatori) quali quelli di morale sociale e di DSC, per i quali vi è, in più di una occasione, una coincidenza almeno materiale circa i contenuti: che cosa infatti dovrebbe esattamente distinguere il momento biblico e quello di rivisitazione storica della tradizione cristiana come pure quello legato ai principali temi sintetici, delle due discipline? Se è tutta e solo una diversità di denominazioni, quindi alla fine nominalistica, perché mantenere distinti gli insegnamenti? E viceversa, una volta precisata la distinzione, quali i rapporti?
La dottrina sociale della Chiesa, per sua stes­sa denominazione, si presenta come riflessione ecclesiale, autorevole e autentica circa il fenomeno sociale. La sua caratteristica di ecclesia­lità ci pare da intendere in senso proprio; in forza di essa la Chiesa, nella totalità del suo soggetto storico, il popolo di Dio presieduto dai suoi pastori, è il soggetto specifico ed esclusivo di questa dottrina, in grado di identificarne primariamente la singolarità41.
Perché una riflessione credente sul sociale possa essere definita correttamente «dottrina sociale della Chiesa» e di conseguenza concorrere autenticamente a costituire la dottrina sociale della Chiesa occorre infatti che sia la coscienza eccle­siale tutta ad esprimersi, il che può avvenire propriamente soltanto nella forma del pronunciamento magisteriale, secondo i vari gradi di impegno dottrinale e nelle modalità che gli competono. È nell'esercizio del magistero, compito caratteristicamente ecclesiale, che i` pastori potranno avvalersi della competenza dei teologi, degli apporti di ogni fedele come pure delle riflessioni prodotte dall'umanità intera, illuminanti per la comprensione della realtà sociale; ciò non può tuttavia che significare, di conseguenza, che il senso primo, specifico e proprio cui riferire la DSC sia il magistero.
Occorre inoltre riconoscere il fatto di essere ormai giunto a costituire un vero e proprio «"coipus" dottrinale>> (SRS 1) grazie anche al concatenamento esplicito tra i suoi principali interventi, per cui in ciascuno di essi sono intenzionalmente richiamati, assunti e precisati gli apporti dei precedenti.
Può essere al Magistero sociale inoltre attribuito il fatto di essersi prevalentemente espresso in forma propositiva piuttosto che nella forma consueta del magiste­ro, di esclusione cioè delle prospettive da rigettare perché il proce­dere risulti orientato nella corretta direzione, e così via.
Tra le funzioni che potrebbero caratteristicamente spettare a questo esercizio del magi­stero ecclesiale.  ci pare che il com­pito primariamente svolto in ambito sociale sia stato e possa pertanto essere ancora quello di provvedere al puntuale discernimento storico dei fenomeni sociali in nome della fede cristiana, sia mediante il giudizio di condanna formulato nei confronti delle posizioni e delle scelte, ideologiche o pratiche, riduttive o comunque da escludere per una corretta interpretazione della società sia, soprattutto, nell’auto­revole indicazione delle occasioni favorevoli per l'intervento attivo a favore della promozione della società stessa, comunicando non sol­tanto contenuti riflessivi poi da realizzare, ma anzitutto senso e plau­sibilità dell'intervento stesso ( SRS 41b).
Si tratta dell’apporto riflessivo, dalla parte della DSC così considerata, dell’ermeneutica credente del sociale. Essendo inserita in una tradizione vivente e riflessiva, la DSC può essere descritta come un’argomentazione estesa storicamente e incarnata socialmente: è un continuo processo di interpretazione e reinterpretazione che cerca di coniu­gare il momento dell'universale salvezza in Cristo  con quello della particolarità storica42. A questa autocomprensione sembra alludere anche la nota tripartizione facente capo ai «principi di riflessione, criteri di giudizio e direttive d'azione», indicandone una sorta di differenziazione interna. Un apporto riflessivo da intendersi non sol­tanto come istruttivo per gli altri approcci credenti al sociale, ma anche e soprattutto come normativo, in quanto finalizzato a dare ad essi direzione e guida.

5.2.2. Nell’ambito del confronto e insieme dell’approfondimento delle prospettive incontrate, ora portiamo a diretto contatto DSC e riflessione teologica sulla società.
 Un primo apporto della riflessione teologica può essere quello di un sapere teologico finalizzato alla fondazione, giustificazione, sistematizzazione e approfondimento dei testi del magistero sociale della Chiesa, che consentirebbe di pervenire ad una vera e propria teoria credente della società, strutturalmente in evoluzione, elaborata principalmente a partire dai testi detti, sarebbe svolta seguendo il metodo e attingendo alle risorse e strumenti propri della ricerca teologica, avendo tuttavia come principale obiettivo non soltanto una riflessione orientata e alimetata dal magistero, ma la sua stessa ripresa sistematizzante43.
La figura di teologia sociale sopra delineata presenterebbe indubbi vantaggi: consentirebbe infatti di apprezzare al meglio i risultati riflessivi dei differenti interventi del magistero, per lo più molto diversificati, di tipo occasionale, fortemente legati alle circostanze
Non va da ultimo dimenticato il preziosissimo apporto di tale riflessione per l'esercizio del magistero stesso, che potrebbe ampiamente usufruire di questa elaborazione e dei suoi risultati, pur non legandosi necessariamente e integralmente ad essa, per i propri e successivi interventi.
È necessario infatti distinguere sempre la dottrina sociale ufficiale Chiesa e le diverse posizioni delle scuole, esprimenti orientamenti anche consolidati e pienamente apprezzati in ambito ecclesiale, che hanno sistematicamente giustificato, sviluppato e ordinato il pensiero sociale contenuto nei documenti pontifici44. Gaudium et spes 43c ricorda opportunamente che “a nessuno è lecito rivendicare esclusivamente in favore della propria opinione l'autorità della Chiesa”.
Affinché sia rispettata la propria connotazione ecclesiale, costitutiva della propria autorevolezza e della sua  soggettività, per la DSC è necessaria la sua identificazione con il magistero sociale, dal momento che nessun altro soggetto, nella chiesa potrebbe farsi ufficialmente espressione della sua coscienza circa la società; d'altra parte, perché la DSC non si riduca a questo semplice insieme di pronunciamenti magisteriali, per quanto ricchi di contenuti e adeguatamente correlati l'un l'altro, risulta altrettanto necessario fare riferimento alla loro rielaborazione critica e sistematica, facendo uso delle risorse proprie della teologia. Ma, appunto, affiora l'esigenza della distinzione tra i differenti approcci teologici e la necessaria univocità della DSC stessa.
   Alla ricerca teologica, che certo può essere esercitata anche in `riferimento ai testi del magistero con intenti di sistematizzazione, fondazione e approfondimento come sopra ricordato (theo­logia magisterii), va invece rico­nosciuta un'apporto specifico secondo una caratteristica propria, l'elaborazione cioè scientifica di una teoria credente del sociale.
Alla teologia in se stessa considerata compete, nell'ambito da noi preso in esame, lo sforzo di esercitare la propria competenza in quanto riflessione credente scientifica, rigorosa, in grado di produrre una teoria teologica del sociale.
Rispetto alla DSC, non vi è quindi tanto differenza di destinatari, quanto di prospettiva: di discernimento autorevole, autentico, ufficiale circa le possibilità iscritte nel sociale, la DSC, di riflessione critica sulle stesse realtà e sulle loro interpretazioni correnti, la seconda.
Oltre alla teologia morale sociale altri approcci teologici-pratici si prendono cura specifica del sociale sotto il profilo della riflessione credente: va qui espressamente ricordato il profilo della teologia pastorale che in quanto teoria della prassi ecclesiale non può non occuparsi anche dell’apporto pratico della comunità cristiana alla crescita della società tutta45.
In ogni approccio teologico pratico (morale sociale, teologia pastorale, teologia spirituale) il ruolo proprio a cui è chiamata la riflessione teologica, consiste specificamente non soltanto nella sistematizzazione del magistero, bensì in particolare, entro l'orientamento offerto dallo stesso, nella ricerca di sempre nuove persuasive interpretazioni teoriche e teorico-pratiche della società nel  confronto attivo con le altre posizioni presenti nel panorama culturale attuale.
La teologia pratica non ha il compito precipuo di emanare dottrine, ma di elaborare  ricerca, e non intende impegnare direttamente la Chiesa, quanto offrire il proprio contributo di scientificità a servizio dell'intelligenza della fede.

In conclusione, non si vuole suggerire una sorta di «depotenzia­inento» della DSC a vantaggio della riflessione teologica; viceversa, si vorrebbe piuttosto segnalare l'esigenza di un congruo rilancio della riflessione teologica inerente al sociale, che non pare goda sem­pre dell'attenzione che ad esso compete. Ciò permetterebbe di attivare e approfondire una feconda circolarità in molti modi auspicata dalla Chiesa stessa. La notissima espressione secondo cui la DSC «appartiene... al campo della teologia e, special­niente, della teologia morale” (SRS 41, CA 55, VS 99) esplicitamente ripresa dal Compendio (n. 72) e da Benedetto XVI, invita a mettete anzitutto in luce le profonde e solidissime radici comuni a DSC e riflessione teologica sulla società (essenzialmente radicamento fondamentale nella rivelazione biblica e riferimento imprescindibile alla tradizione ecclesiale; entrambe sono infatti ermeneutica credente della società)46, cogliendo il rispettivo pro­prium nel differente approccio specifico (il discernimento magisteria­le in un caso, la ricerca scientifica nell'altro), valorizzandone quindi il  dialogo e l'intreccio, evitando invece, come spesso accade, di attri­buire pervicacemente all'una o all'altra ciò che in realtà è dominio co­mune a entrambe nel tentativo di differenziarle ad ogni costo per ri­cercare poi, solo a quel punto, le convergenze possibili47.
È chiaro in ogni caso che, tra le prospettive indicate, vi è sì differenziazione ma non separatezza, così che la circolarità tra di esse, come pure l'esigenza da molti richiamata di vera interdisciplinarietà, si mostri non soltanto possibile, ma feconda.

GIANNI MANZONE


Circa la peculiare identità della Dottrina sociale della Chiesa, cfr, GIOVANNI PAOLO II, La Dottrina sociale della chiesa, Lateran University Press, Roma 2002; E. MONTI, «La dottrina sociale della Chiesa e il suo insegnamento", La Scuola Cattolica 126/6 (1998) 769-816: 804-816 e ID.,Alle fonti della solidarietà. La nozione di solidarietà nella dottrina sociale della Chiesa, Glossa, Milano 1999, pp. 83-116; G.MANZONE, Invito alla Dottrina sociale della Chiesa, Borla, Roma 2004.

Va fatto osservare, per l’appunto, come la filosofia soggiacente a questa figura di DSC fosse quella neo-scolastica che proprio Leone XIII ripristinò nel suo pontificato. Che la dottrina morale sia considerata nei termini dell'etica naturale, riflette la tradizione dell'insegnamento teologico mora­le, che tendenzialmente riduce la morale cristiana al decalogo e tenden­zialmente riduce il decalogo alla precettistica della legge naturale.

La critica, piuttosto vasta, affiorata già intorno agli anni Cin­quanta nel contesto della così detta «teologia delle realtà terrene»  ri­vendica una specificità - comunque da determinare - al «sociale» che fa problema per se stesso e quindi esige una considerazione specifica, senza potersi risolvere nella semplice estensione della considerazione mo­rale.

G.COLOMBO, “La transizione della dottrina sociale dalla filosofia alla teologia”in AA.VV., Il compito della dottrina sociale della chiesa, AVE, Roma 1989, pp. 30-31.

Quanto poi al problema di come tradurre l’istanza “naturale” nel contesto storico concreto degli attuali rapporti sociali, è lasciato alle competenze altrui, come problema semplicemente “tecnico”(QA 36,37).

G.ANGELINI, “Giustizia sociale: aspetti nuovi di un problema antico”in Rivista del clero italiano 6(1998)407-425

G.BOF, “La dottrina sociale della chiesa: problemi epistemologici e criteri ermeneutica. Una introduzione alla lettura della Centesimus annus” in Asprenas 38(1991)309-342

il diritto naturale/l'ordine naturale, che si espri­me/deve esprimersi nella società, fu professato dalla filosofia cristiana e tomista, rilanciata da Leone XIII in quanto conforme alla teologia della Chiesa. Secondo la filosofia cristiana il diritto naturale è in armonia con l'ordine soprannaturale, che si esprime in modo compiuto nella Chie­sa. In questo senso si può dire che l'idea di società, fondata sul «diritto naturale», appartiene alla cultura cristiana: è in­fatti un capitolo della filosofia neotomista, identificata co­me la «filosofia cristiana», non però in senso restrittivo o particolare, ma in senso universale, perché è identificata an­che come la filosòfìa-del –“senso comune”.

Conseguentemente il nuovo con­testo esige di ridefinire la morale cristiana, sia sul piano dell'opera sto­rica, sia su quello della determinazione teorica. In conclusione, ricom­presa la morale cristiana nel riferimento alla rivelazione, anziché alla legge naturale, che ne è della dottrina sociale fondata sulla legge naturale?

Cfr. A.BONANDI, Il difficile rinnovamento, Cittadella, Assisi 2003, p.137ssg  con relativa bibliografia specializzata.

Nel Sinodo si fronteggiano due posizioni: la precomprensione occidentale e quella dei Vescovi del Terzo Mondo. La prima, indotta dalla pratica borghese del cristianesimo, stenta a vedere l'intrinseca relazione tra la giustizia socia­le e l'evangelizzazione. I vescovi del Terzo Mondo provocano la riconsiderazione del rapporto tra giustizia sociale e Vangelo, ormai esposta, nella formula vulgata del­la  «teologia della liberazione», a una interpretazione altrettanto squili­brata, anche se di segno opposto, quanto quella borghese. Su questo sfon­do, risultò impossibile trovare l'accordo.

Già nel discorso di Puebla (1979) Giovanni Paolo Il ribadiva la capacità e pertinenza della DSC a comprendere dal punto di vista cristiano la realtà sociale e a promuovere la liberazione vera e integrale dell’uomo.

E.KAZCZYNSKI, “La dottrina sociale della chiesa è teologia morale>?” in Angelicum 3(1993)233-254

La DSC, in quanto elemento ­cardine dell'azione sociale della Chiesa nell'ambito della vicenda sto­rica e culturale attuale, offre a tutti i componenti la comunità cristiana dei criteri e delle linee di fondo per la formazione, il discernimento e la media­zione culturale.

La secolarizzazione erode le stesse condizioni civili indispensabili ad articolare la pertinenza del messaggio evangelico e quindi della missione della chiesa: mancano le opportunità civili di riconoscere il senso e il valore dell'uomo nelle quotidiane circostanze della vita. Nasce allora la tentazione non solo di privatizzare l’imperativo etico ma di ridurre la stessa fede cristiana in proiezioni spiritualistiche, svincolate dall'intrigo inestricabile dei rapporti civili.   Ma il credente, e in generale l’uomo, non può uscire dalla civiltà.

In que­sto senso la DSC esige una buona teologia sociale, che non può sottrarsi alla fatica della teoria, né semplicemente ri­mandare ad altri trattati.

Questa ci pare l’intenzionalità profonda di De Lubac quando afferma che il cattolicesimo sociale “più che una dottrina fissata in tutti i suoi punti definisce una atteggiamento e un orientamento” (H. DE LUBAC, Catholicisme, Du Cerf, Paris 1952, p. 318).

Si segna in tal modo i limiti della teologia sociale, superando i quali essa si distrae, e si disegna lo spazio e la necessità dell'assunzione di elementi culturali. La mancata esecuzione di questo compito non rende solo “inat­tuale” la teologia, marginalizzandola nel contesto culturale, ma impoverisce l'esercizio della ragione teologica.

M.D.CHENU, La dottrina sociale della chiesa. Origine e sviluppo (1891-1971),Queriniana, Brescia 1982, p.49

Il punto centrale del dialogo, quello che può allontanare il pericolo di cadere nell’eccesso di empirismo o in quello di ideologizzazione, è per le scienze sociali, come per tutte le scienze umane, un a priori che la OA bene individua: ”Se tutti sono d’accordo nella costruzione di una nuova società posta al servizio degli uomini, ancora bisogna sapere di quale uomo si tratta” (OA n.39).

V.CESAREO, “Scienze sociali e insegnamento sociale della Chiesa: aspetti epistemologici e metodologici”in AA.VV., Il Magistero sociale della Chiesa, Vita e Pensiero, Milano 1988

Occorre infatti riconoscere che la letteratura-sociologica spesso rischia di concepire riduzionisticamente la persona nei termini di un fascio di ruoli, oppure come un essere del tutto eterodiretto e ultrasocializzato. La riflessione critica - in concreto la riflessione volta a elaborare un'antropologia filosofica e teologica - deve rendere evidente il carattere parziale e congetturale dei modelli antropologici che le scienze sociali a volte pretendono derivati dalla rilevazione empirica. 

G.BEDOGNI, La dottrina sociale della chiesa come teologia pratica. Un’indagine epistemologica, PUL, Roma 2000,  p.136

L’antropologia cristiana tiene  conto che «in Cristo [...] ci è data un'immagine e un'interpreta­zione determinata dell'uomo, un'antropologia plastica e dinamica, capa­ce di incarnarsi nelle più diverse situazioni e contesti storici, mantenen­do però la sua specifica fisionomia, i suoi elementi essenziali e i suoi contenuti di fondo. Ciò riguarda in concreto la filosofia come il diritto, la storiografia, la politica, l'economia [...]. Incarnare e declinare nella storia - per noi nelle vicende concrete dell'Italia di oggi - questa inter­pretazione cristiana dell'uomo è un processo sempre aperto e mai com­piuto» ( Intervento conclusivo di S. E. Card. Ruini al III Convegno ecclesiale di Palermo (20-24 novembre 1995), in Il Vangelo della carità per una nuova società in Italia, Libreria Editrice Vaticana, Città del Vaticano 1996, p. 196).

La DSC è consapevole che l’esperienza sociale e le istituzioni civili non sono pura matter of fact, ma portano inscritti in sé significati, che soltanto per riferimento ad un’antropologia possono essere intesi e valutati. E, d’altra parte, le evidenze etiche non si danno in modo “razionale”, ma in forma storica attraverso la mediazione dei rapporti socio-culturali ( G.MANZONE, Libertà cristiana e istituzioni, o.c., pp.36 ssg.)

La preoccupazione di intendere l’epoca, di discernere quindi gli imperativi storici concreti iscritti nella situazione vissuta dalla società presente, diventa evidente e centrale, come abbiamo notato, nel magistero di Giovanni XXIII. La medesima preoccupazione domina il dibattito conciliare, tutto teso a decifrare i “segni dei tempi”.
Non si tratta solo dei segni relativi al mutamento della società civile e ai compiti da esso emergenti, ma anche di questi. Si acquisisce l’istanza dell’interpretazione dell’epoca come imprescindibile mediazione tra principi etici generalissimi e imperativi concreti (MM 52).

La GS introduce una struttura argomentativi tipica: il punto di partenza è costituito dalla descrizione fenomenologica della situazione, cui segue il giudizio prodotto alla luce dei principi cristiani e l’indicazione di obiettivi operativi.
La novità sta nel tipo di lettura fenomenologica, che non si vuole limitare alla descrizione dei fatti, nella loro materialità, ma mira ad interpretarli cogliendovi l’espressione di attese, problemi, desideri diffusamente avvertiti e meritevoli di considerazione. Sono i segni dei tempi, fenomeni che caratterizzano un’epoca e rivelano una concezione di esistenza.

Il giudizio è esposto al rischio di contrapporre alla presente cultura strumentale gli ideali della cultura cattolica, invece di affrontare il tema centrale nella nostra epoca del rapporto civiltà-coscienza.

Possiamo intendere come tentativo di interpretare sinteticamente la dinamica della società moderna la categoria di socializzazione introdotta per descrivere “uno dei tratti tipici che caratterizzano la nostra epoca”. Questa categoria è in relazione con la transizione da un metodo puramente deduttivo della legge naturale ad un approccio più analitico alla realtà sociale secondo il principio “vedere, giudicare e agire” (MM236). Le scienze sociali ricevono più attenzione e la socializzazione è definita come “progressivo moltiplicarsi  di rapporti nella convivenza, con varie forme di vita e di attività associata, e istituzionalizzazione giuridica”(MM 63).
 Richiamando l’attenzione sul fenomeno della socializzazione, la MM rappresenta la prima presa di coscienza che il tema società è complesso e non può essere trattato deduttivamente (l’idea di società cristiana come indispensabile condizione per individuare il bene comune), ma induttivamente o interpretativamente (metodo del discernimento).

I tre momenti o elementi del discernimento (analisi, valutazione, progettazione) sono tutte mediazioni dell’esperienza sociale, che è fondamentale ma sempre mediata. Non c’è contatto vivente con la realtà sperimentata se non mediato.

G.CREPALDI-S.FONTANA, La dimensione interdisciplinare della Dottrina sociale della Chiesa, Cantagalli, Siena 2006, p.68.

Non sembra recepire l’indicazione l’ordinamento degli studi teologici proposto dalla CEI nel documento “ La formazione dei presbiteri nella chiesa italiana. Orientamenti e norme per i seminari”(terza edizione 2007) : la DSC è posta all’interno del corso della morale sociale.

Tra le varie iniziative ricordiamo il convegno promosso dalla Pontificia Università Lateranense in collaborazione con il Pontificio Consiglio della giustizia e della pace e il Centro di Ricerche per lo studio della dottrina sociale della chiesa dell’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano sull’insegnamento della dottrina sociale della chiesa in Europa 19-21 giugno 1997 .

Circa la ripresa delle «Settimane sociali», vedi CEI, Nota pastorale e relativo Regolamento in Ripristino e rinnovamento delle Settimane sociali dei cattolici italiani, 20 novembre 1988 (Enchiridion CEI 4, 1306-1330).

OA n.4, ampiamente ripresa e illustrata in seguito da numerosi interventi del Magistero sociale.

Si vedano, a questo proposito, le numerose pubblicazioni nenti la DSC in forma sia periodica che monografica, poste su diversi livelli tra quello scientifico e quello divulgativo: cfr. E. MONTI, «La dottrina sociale della Chiesa e il suo insegnamento", o.c.

. L’inizio di una più precisa attenzione ai determinismi sociali da parte della DSC coincide con il superamento del conflitto tra chiesa e mondo moderno, storico e caratterizzato da una concezione secolare o laica della società e delle istituzioni (J.HARYATMOKO, Le statut épistémologique de l’enseignement social de l’Eglise catholique, Peter Lang, Paris 1996). Sarà l’epoca del Vaticano II in cui si oltrepassa la visione  sacrale della società, che suppone il generale  consenso della fede cristiana e una visione organicista dei rapporti sociali.

Cfr. G.MANZONE, Una comunità di libertà introduzione alla teologia sociale, Messaggero, Padova 2008, cap. V

Nel giudizio storico-sociale, procedere dal principio generale alla proposta pratica concreta è alquanto imprudente. Il bene possibile - per esempio con riguardo alla «solidarietà» - va individuato attraverso un discernimento pratico, che anzi tutto sappia immaginare il futuro effettivo conseguente a questa o quest'altra scelta, e proprio con riferimento a tale immagine esprima una valutazione. «Immaginare» d'altra parte vuol dire rappresentare quel futuro tenendo conto della complessa situazione storica, della molteplicità dei fattori che concorrono a costituirla, di quelli «materialí» e di quelli ideali. «Immaginare» non è possibile se non nel quadro di un'interpretazione scientifica della realtà sociale, capace di conferire senso ai fatti e concretezza storico-pratica agli ideali. La «solidarietà» in tal caso non apparirà più come appello a una generica disposizione etica della libertà soggettiva, ma come progetto storico-concreto capace di mobilitare la disposizione etica dando ad essa una rappresentazione obiettiva.

J.HOLLAND  -P. HENRIOT, Social Analysis linking faith and justice, Centre of Concern, Washington 1980, pp.7-46

G.BEDOGNI, o.c.

L’inserzione della DSC  nel campo delle scienze sociali offre da questo punto di vista un terreno di sperimentazione particolarmente stimolante. In un dialogo costante con le altre razionalità, può contribuire in maniera critica e costruttiva alla riflessione sulla società. Può partecipare ad una riflessività in atto aperta alla creatività, riferendosi non ad una ideologia astratta, ma ad una comunità di interpretazioni e a delle tradizioni viventi incarnate nelle pratiche concrete (A.L.CARTAGENAS, “The Social Teachings of the Church in light of Paul Ricoeur’interpretation theory: implications for the critical reading of a Tradition”in The Heithrop Journal LI (2010)636-657).. Essa rende un servizio salutare alla scienza in generale, chiarendo le forme concrete nelle quali si produce la transizione civile, le ragioni che presiedono ad essa e quindi i rimedi possibili. In tal modo ha a cuore la causa dell’uomo.

M.TOSO, “Natura e insegnamento della dottrina sociale della chiesa” in La Società 7(1997)821-833

Si pensi, per es. ai numerosi centri di studio operanti in Europa già prima della pubblicazione della Rerum novarum.

Un differente approccio teologico esercitato sul sociale assume  la realtà storico sociale come  presupposto, come ambiente vitale dello stesso fare teologia. Si tratta di un approccio teologico fondamentale in prospettiva sociale o politica come quello avanzato dai vari progetti di teologia politica o dalle differenti teologie della liberazione.

La nota affermazione di SRS 41, in base alla quale la DSC «appartiene...al campo dell' ideología, ma della teologia e specialmente della tE gia morale» viene interpretata da G.Angelini in questi termini: “Appartiene,,, non nel senso di poter essere intesa immediatamente semplice capitolo della teologia; ma nel senso di mutuare i suoi contenuti dai "risultati” della teologia morale che si applica ai complessi problemi dell'esistenza sociale degli uomini. Il difficile problema soggiacente, cioè di precisare i rapporti tra teologia e magistero, appare così sol affrettatamente sfiorato”(G.ANGELINI, “La dottrina sociale della chiesa” in AA.VV., La dottrina sociale della chiesa, Glossa, Milano 1989, p.49)..

E.MONTI, “Il Compendio: un nuovo approccio alla dottrina sociale?” in La Scuola Cattolica 133(2005)579-580

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